Il mediano e il portiere (terza parte)

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RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI: non guadagno alcunché, per lo meno leggetevelo tutto.
 
A causa dello stupore la mandibola della ragazza abbandonò ogni velleità di mantenere la dentatura inferiore a contatto con quella superiore. Non era difficile per il portiere comprendere che la bionda fanciulla non aveva compreso pressoché nulla.
“Che pronuncia di merda. Manco ti sei fatto capire” disse il mediano finalmente ritornato in possesso della facoltà oratoria.
“Ma te dimmi questo. Ma allora potevi parlare te, con il tuo bell’inglese, campione. Se non fosse che la visione di Beatrice ti ha schiuso le porte del paradiso, a quanto pare.”
“Come fai a dire che si chiama Beatrice? Ancora non ha detto nulla.”
“Lascia perdere, dai. Ascolta, fatti una corsa e vedi un po’ se riesci a imbarcare lo stinco all’ala con un’entrata da manicomio.”
“Poveraccio. Adesso ti faccio vedere io.” Il mediano non difettava solo di Dante e Divina Commedia, pure la lingua inglese non era nelle sue corde. Tuttavia si era reso conto di aver ceduto l’iniziativa troppo a lungo. Rimanere impalato, senza parola alcuna, davanti a quella bellissima crocerossina era stato un infortunio non indifferente. Ora, mentre pensava all’imbarazzante episodio, poteva sentire la perfida linfa della vergogna irrorargli il viso. Tutto a un tratto ricordò l’infanzia, i sogni da numero dieci infranti dal pennello di un disegnatore che con quel numero sei ne aveva sancito il destino: mediano. Correre, spezzare e passare. Avrebbe preferito altro, non c’è che dire. Con il tempo aveva comunque imparato ad apprezzare quel ruolo: particolare non indifferente, la posizione di mediana permetteva di scaricare ogni frustrazione nata all’interno o all’esterno del campo di gioco sulle gambe degli avversari. Rimaneva una piccola infelicità, certo, una insoddisfazione che il mediano tentava di seppellire con quell’atteggiamento fiero, quell’ostentazione di sicurezza e caparbietà tanto detestata dal portiere. Questo quando le circostanze lo rendevano possibile. Altre volte rabbia o vergogna avevano il sopravvento, stendendo il loro rosso velo sul viso, quasi a coprire remote ferite. 
“Com’è che si dice? Sorry, vero?” Ma il portiere fece finta di non sentire. Il mediano schiarì la gola ed emise un timido “Sorry”. 
A questo punto la crocerossina sbuffò e allargò le braccia con gesto plateale. “E mò basta. Sorra, sorra, e mo me avete rotto. Ma che c’avete con mi sorella. E soprattutto ma come cazzo state a parlà?”
La bocca del mediano era ancora corrucciata, l’arrotamento della erre di sorry aveva lasciato qualche strascico di troppo sulle sue labbra. Forse queste si sarebbero distese naturalmente dopo lo sforzo linguistico, ma la risposta della crocerossina ebbe, al contrario, effetto stabilizzante.
Al portiere tremò la voce: “Ma, ma allora non sei olandese?”
“Ma tu sorella sarà olandese, non la mia. Sò borgatara io.”
“Ma che…” l’espressioni morì nella gola del portiere. Scosse la testa, poi si voltò verso il mediano e osservandolo disse “Mamma mia che faccia da scemo che hai. Cosa ti è preso?” Il mediano si ridiede un tono più distaccato, umidificò le labbra e replicò “Hai preso un granchio, questa è romana, mica olandese.”
“No, sei tu che hai detto che questa era olandese. Questa è burina, altro che Amsterdam.”
“Ehi bello, come ti permetti? Ma ti vedi come stai messo? Ma tira giù le braccia prima de parlà” disse la crocerossina.
“Brutta zotica adesso ti faccio vedere io come te le misuro sulla faccia le mie braccia…”
“Ehi! Ehi!” lo interruppe il mediano “insomma manco ci si conosce e subito a litigare” il nuovo ruolo di pacere ebbe subito un effetto rivitalizzante sul suo spirito “Allora, vediamo di stare tranquilli. Tu smettila di fare il villano.”
“Chi io?” rispose il portiere.
“Si tu.”
“Ma ci manca solo la tua testa di plastica! Ma a quella non dici niente?”
“No. Cioè, si, insomma, anche lei, Signorina, può essere meno scurrile?”
Ma la crocerossina i modi da signorina non sembrava possederli “Ma senti come parla questo! Scurrile, signorina! A’ gobbo, vedi de parlà come magni.”
Il portiere si lasciò scappare una risata, ma subito ritornò alla mente l’offesa subita dalla stessa persona di cui ora apprezzava l’ironia. Pensò che non doveva assolutamente concedere nulla a quella donna, nemmeno una risata. Offeso a morte, rimase zitto, con la testa stretta tra le braccia levate, crogiolandosi nella sua atavica permalosità. Diversamente, il mediano sentì la rabbia aprirgli i pori della pelle, squarciare l’epidermide ed eruttare con la violenza di un vulcano. In altre occasioni avrebbe potuto resistere e ricacciare il furore nel suo alveo profondo. Non allora. Gli succedeva spesso durante le partite, un numero dieci lo irrideva dribblandolo e riceveva l’ovazione del padrone. Un rancore sordo si impadroniva della sua mente, la gamba destra del numero dieci prendeva le sembianze di un pennello, il pennello che segnò il numero sei sulla sua maglia. Perdeva le staffe, dieci secondi non di più, il tempo di lasciare il fenomeno di turno a terra con la gamba destra dolorante. Ed anche quel giorno perse le staffe. Esplose in un grido sordo: “Vacca!”
Il portiere trattenne il respiro. Seguì la traiettoria di quel “Vacca!” come il ragazzino che osserva il gavettone lanciato dal sesto piano e non sa cosa aspettarsi da quella deflagrazione. Non da meno, il mediano si pentì della sua esagerata esclamazione quando ancora era intento a pronunciare la penultima sillaba. Ma ormai il dado era tratto.
Non ci fu alcuna deflagrazione. Il gavettone, al contatto con l’asfalto, si comportò alla stregua di un supertele. Le speranze del portiere di osservare cinque dita rosse sul volto del mediano si infransero nell’inattesa reazione pacata della crocerossina. Con voce tranquilla replicò “Come fai a sapere che lui mi chiama così?”
Mentre pronunciò la frase la porta della stanza si aprì. Due persone entrarono in camera. [CONTINUA]

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