Il capro espiatorio era in origine un rituale ebraico per cui un capretto veniva simbolicamente caricato dal sommo sacerdote di tutti i peccati di un popolo e quindi allontanato dalla città. Immaginate una folla schiumante di rabbia artificiale, la disperazione di un povero capretto ciondolante verso l’ignoto deserto palestinese, lui incolpevole simbolo di un popolo incapace di fare la conta dei propri errori, o, forse, così illuso della propria purezza da non volere macchiare l’abito.
Difficilmente ai giorni nostri vi capiterà di notare capretti a zonzo per i suburbi di Gerusalemme. Allo stesso modo nessuno, a qualsiasi latitudine vi troviate, avrà l’ardire di caricare le proprie negligenze su un indifeso ovino. Eppure il capro espiatorio, smesso il corpo e fattosi concetto, si è proiettato attraverso i millenni, immune a epoche e illuminismi.
Il calcio, ad esempio, da sempre necessita di più o meno colpevoli capretti da spedire nel patrio deserto. Valga per tutte la storia di Moacir Barbosa, portiere brasiliano accusato di aver provocato il Maracanazo, la sconfitta nella finale del mondiale casalingo 1950. Una squadra a cui basta il pareggio per alzare la coppa si riversa in attacco sul punteggio di 1-1 e prende goal in
contropiede. La colpa? Del portiere. Siamo in Brasile, mica si può dare la colpa, che so, al numero dieci.
Un portiere, appunto. Un tempo i capretti erano portieri. La colpa degli insuccessi era di questi spilungoni castigati alla porta in quanto meno bravi nel fraseggio palla al piede. Fu esiliato nel deserto antistante Praga l’ottimo numero uno cecoslovacco Schrojf nel 1962, mentre un giretto in zone poco ospitali della nostra penisola toccò a Zoff nel 1978 e Zenga nel 1990. Qualche tedesco ebbe l’ardire di accusare pure l’immenso Kahn nella finale mondiale 2002. Una topica clamorosa la sua, ma se quella scarsa formazione tedesca era giunta fin lì, gran parte del merito era di quel signor portiere.
Una delle novità dell’ultimo mondiale è appunto questa: non sparate sui prortieri, bersagli facili, capretti dal colore differente al rimanente del gregge, indirizzate i vostri strali verso i numeri più alti, addebitate le vostre incazzature alle stelle per eccellenza: gli attaccanti. Mai visto tanti numeri nove sulla graticola come in Brasile: Messi, Fred, Balotelli, Higuain e altri. Campioni cacciati dalla città dei sogni, macchine da goal parcheggiate e abbandonate al loro infelice destino, tra striduli pianti di bambini e opinioni ragliate all’unisono da un popolino tradito.
Insomma, per uno sparuto gruppo di portieri (taluni sconosciuti) alzati sugli scudi, in Brasile tante sono state le punte spuntate del loro orgoglio. Il fatto è che le aspettative
riversate su questi numeri nove erano troppe. Venticinquenni dalle spalle spesso ridotte trasformati in uomini della provvidenza e caricati di una responsabilità che non sono in grado di sopportare. Perché? Sponsor, tirature di giornali, visualizzazioni di post e telegiornali: l’attaccante fa goal e il goal è rumore, battimani, clamore, emozione più facilmente traducibile in spot, notizie, parole. In un mondo dominato dal marketing, dove i calciatori si acquistano non solo in base a piedi e muscoli, ma pure a ghigno ribelle e capacità di twittare, sottile è il passaggio tra la gloria e l’onta, profondo è il baratro. Se fai goal ti tirano le mazzette, se non fai goal ti tirano le mazzate.
Qualcosa non torna. Non tornava con il povero Moacir, non torna ora con i meno poveri Fred & co. Affidare la propria sorte all’uomo della provvidenza è segnale di debolezza, mancanza di fiducia nei confronti di un gruppo che non si considera coeso e vincente. Maradona 86 e pochi altri mirabili esempi a parte, non si è mai visto un singolo trascinare al successo un’intera squadra. Soprattutto, non glielo si è mai chiesto. Oggi, però, c’è pure da fare i conti con un mercato mondato di ogni parvenza di umanità, instabile e generatore più di lutti che ricchezze. Quando non si sa che pesci pigliare, quando non si è programmato un futuro, non rimane che affidarsi all’uomo della provvidenza. Dall’economia al pallone, le dinamiche si mutuano. Cercasi eroi: per la patria, per il mondiale, per il sorriso dei bambini, per le nuove generazioni, per il mercato, per il vostro posto di lavoro. E un eroe che non salva la pulzella dal drago infernale merita la gogna.
Poveri numeri nove, quindi. E aggiungete pure i dieci (capitolo a parte: che fine hanno fatto?) e gli undici. Un tempo facevano sognare con i loro goal. Che poi certo, mica sempre segnavano, ma tutt’al più si prendevano una botta di scarpone! e via andare. La medaglia ha un lato d’oro purissimo, preziosa come gli ingaggi faraonici che i moderni frombolieri si portano a casa. L’altro lato è meno prezioso. Porta inciso un capretto che vivacchia per le steppe d’Israele. Sulla groppa le speranze inevase di chi si è lasciato illudere, di chi ha troppo preteso, di chi vive su una corda che oscilla come i mercati mondiali, di chi ha dimenticato che dietro il numero nove c’è ragazzo. Talvolta manco una cima, per intenderci.